di Azzurra Marcozzi
Intervista alla giornalista e manager culturale Alessandra Angelucci che, il 9 giugno scorso alla Sala Buozzi di Giulianova, ha presentato il suo primo libro di poesie, intitolato “Mi avevi chiesto di fermarmi qui”.
1) Alessandra, figlia d’arte per l’appunto, e come si può leggere nella tua biografia, “cresciuta fra i colori, le tele dipinte e l’inconfondibile profumo delle tempre vive”. Quindi da sempre avvezza a leggere nel profondo le immagini, a scovare i loro segreti arcaici o a trovarne di nuovi. A questo proposito, cosa ti ha portato a scegliere questa immagine di copertina?
È vero. L’arte fa parte di me come il respiro di ogni giorno e questo lo devo a mia madre, artista di talento che, sin da quando ero bambina, mi ha dato la spinta più forte perché io spiccassi il volo. Come ben sai la formazione mi ha portato, tra le tante cose, a diventare critico d’arte e, per questo motivo, a viaggiare molto, a conoscere artisti e vari modi di espressione visiva. E gli incontri non avvengono mai per caso, custodiscono una sorta di predestinazione il cui significato ci è oscuro inizialmente. Così è stato quello con l’artista Damiano Errico, originario di Caserta, che ho avuto il piacere di conoscere e apprezzare professionalmente in occasione di una mostra del maestro Bruno Donzelli al PAN di Napoli. Le fotografie di Damiano Errico mi hanno colpito sin dall’inizio, vista la sua spiccata sensibilità e grande bravura nell’immortalare l’animo e la bellezza femminili. È per questo che ho scelto una sua foto, quando mi è stato chiesto di scegliere un’immagine di copertina: un braccio di donna si eleva sensuale verso l’alto, indicando un punto indistinto che s’illumina grazie ad una luce direzionale, quasi caravaggesca. Il mistero domina la scena e invita l’osservatore a sognare, a guidare il pensiero verso quell’altrove che per ciascuno di noi è rappresentato da un luogo segreto, a volte ineffabile.
2) Giornalista, manager culturale, insegnante, scrittrice e tanto altro. Come riesci a “far convivere” in te tutti questi ruoli con uguale impegno e passione?
Potrei rispondere a questa domanda con tre parole: sacrificio, rinuncia, passione.
Le prime due sono strettamente collegate: raggiungere un obiettivo(qualunque esso sia) comporta inevitabilmente impiegare impegno e quindi fare sacrifici: studiare tanto, nelle ore più impensabili, fare chilometri per essere presente nel posto giusto al momento giusto, avere costanza nelle relazioni. E tutto questo comporta sacrificio e con esso rinuncia. Ma la parola più importante che permette ad una persona, e quindi anche a me, di poter fare tante cose e tutte con lo stesso impegno, è di certo la passione. Essa è il più grande motore che muove le anime e le vite delle persone. Guai se non ci fosse e non esistesse questa magica forza che alimenta in ciascuno di noi le nostre scelte.
Io sono stata fortunata. Ho avuto la possibilità di trasformare le mie passioni in professioni. Ed è dura…molto dura. Dietro ai sorrisi, spesso, si cela stanchezza…si cela tutta l’umanità di chi la notte dorme molto poco.
3) La dedica che hai scelto per il tuo primo libro colpisce davvero e sicuramente ci dice molto di te. È “A chi osando, ha imparato a vivere”. Quale messaggio intendi lanciare ai tuoi lettori?
Parto da un presupposto. Non amo le dediche sentimentali. Credo che l’intimità, quella tua, debba rimanere tale e, se ne hai la possibilità, tu debba continuare a viverla in modo esclusivo con la persona che ti è accanto o con le persone che ti sono vicine. Per cui quando ho pensato ad una dedica, non ho avuto dubbi. Il mio pensiero è volato subito ad una frase che lessi nel libro Insciallah di Oriana Fallaci:
“La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio: la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve”.Cosa saremmo a questo mondo se non esprimessimo con coraggio ciò che siamo, se non trovassimo la forza di osare e di inseguire i nostri sogni, i nostro obiettivi?! Per me è stato così e vorrei che anche per gli altri si disegnasse un percorso di vita in cui, attraverso la forza d’animo e dunque il coraggio, si raggiungessero i migliori risultati e si comprendesse quello che più è importante per me, in questa vita terrena: avere dei talenti e tentare, osando, di farli fiorire in migliori possibilità. Bisogna osare, sempre. Perché in questo verbo è nascosto il significato del verbo “vivere”.
4) La silloge poetica si chiude con la poesia “Udite” che è un po’ il tuo manifesto. Nella poesia scrivi “…dove ogni illusione ci è stata concessa di vivere”. E’ l’arte la privilegiata di questa dedica, quell’altro divino dove tutto è concesso?
Sì. È proprio l’arte la musa ispiratrice delle mie parole. Questa poesia la scrissi tempo fa, quando ero intenta a realizzare il mio sito personale www.alessandraangelucci.it.
La frase che tu hai citato è a me molto cara e credo sia vera. Sì, “ l’arte è quell’altrove dove ogni illusione ci è stata concessa di vivere”. Perché l’arte è tutto e il contrario di tutto: è perfezione e distrazione, amore e oblio, passione e tormento, semplicità e sofisticazione, umiliazione e glorificazione.
L’arte è quel luogo altro, quell’altrove appunto, rispetto alla vita reale ed immanente, dove tutto è possibile e dove il genio dell’uomo, in tutte le sue forme può esprimersi nella sua più totale libertà. E credo che sia proprio questo il concetto fondamentale: libertà di essere e di esprimersi, di farsi amare così come si è. Spesso non ci riusciamo e allora l’arte diventa strumento di salvezza, di espressione, di manifestazione dell’essere comunque a questo mondo.
5) Il tuo libro è un canovaccio di sentimenti, emozioni diverse, stati d’animo. Seguendo il tuo istinto per l’arte, se ti chiedessi di abbinare a tre di questi sentimenti un quadro o una scultura, la tua mente dove ti condurrebbe?
Una bellissima domanda.
Leggere le mie poesie significa percorrere molte strade, lungo le quali si diramano emozioni ed esperienze vissute. Tanti i sentimenti che si rincorrono lungo i versi. Il concetto di libertà, ad esempio, è affrontato in “Carta da zucchero”, “A piedi nudi”, “In volo”, e mi piace pensarlo associato alla scultura conosciuta ai più come “Nike di Samotracia”. Un’opera del III secolo a.c., forse scolpita da un certo Pitocrito, oggi esposta al Museo del Louvre di Parigi.
L’opera venne scolpita a Rodi in epoca ellenistica e rappresentava forse un’offerta commemorativa al santuario dei Grandi Dei. La giovane dea alata, figlia di Pallante, porta l’annuncio delle vittorie militari, mentre si posa sulla prua di una nave da battaglia. Un vento impetuoso investe la figura protesa in avanti, muovendo il panneggio che aderisce strettamente al corpo e crea un gioco chiaroscurale di pieghette dall’altissimo valore virtuosistico, in grado di valorizzare il risalto dello slancio.
Nelle mie poesie è contenuto anche il sentimento del dolore così come quello dello smarrimento: “E sulla mia pelle”, “Per tre volte”, “Sipario” annunciano con chiarezza queste esperienze emotive.
In questo caso, l’artista a cui penserei è Alberto Sughi, scomparso lo scorso anno nel mese di Marzo. Considerato uno dei più noti pittori italiani della generazione che esordì agli inizi degli anni Cinquanta, Sughi faceva parte della ‘scuola cesenate’ insieme a Luciano Caldari e Giovanni Cappelli. Pittore autodidatta, scelse con decisione la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. Ecco…i suoi dipinti rifuggono ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Una solitudine irrimediabile, sul punto di bruciare, di disperdersi in fumo, come quello che aleggia nei locali da lui raccontati; quei tavoli di un Caffè, di un Locale Notturno, di un Piano Bar, dove donne dai volti sensuali, disincantati di fronte allo scorrere del tempo e di ciò che le circonda, vivono la condizione dell’attesa: di un uomo, di qualcuno che le ascolti, di qualcosa che dia sollievo al malessere interiore che le stringe. Il pittore Alberto Sughi descrive con disarmante sincerità un’umanità che appare condannata proprio a questo, all’incomunicabilità, al male di vivere che sembra togliere ogni speranza di salvezza. Tra i quadri, cito in particolare “Interno di camera”.
Infine, canto l’amore, quello ardente e terreno così come quello etereo e sublimato. Questo in “Menta e basilico”, “Di un dolce melograno”, “Rosso”, “Favola”.
In questo caso la mia mente vola ad un’opera scultorea, realizzata da Canova nel 1797: “Psiche e Amore”, che raffigura i due giovani allacciati in un abbraccio innocente, mentre i loro occhi sono puntati su una farfalla che Psiche adagia dolcemente sul palmo di Amore. Un gesto semplice che racchiude un significato profondo: la consegna all’altro della propria anima.
6) Certe opere poetiche hanno il dono naturale di creare immagini, gallerie fotografiche che la mente già possiede o che crea sull’attimo. Come le tue. Qual è il ruolo del “senso artistico” in questo? Oppure procedi per istinto?
Credo si cominci a scrivere sempre perché qualcosa te lo suggerisca. Così è stato nel mio caso. Non è la prima volta che mi trovo scrivere, ma di sicuro la prima volta che la poesia sceglie me. Lo dico sempre, non sono io che ho scelto di scrivere poesie, ma è la forma poetica, piuttosto, che si è avvicinata a me in questo periodo della mia vita.
Dapprima è l’istinto a guidarti ed è l’emozione che trabocca dalle tue labbra e poi si fa carta e inchiostro.
Sostengo che l’emozione non vada mai tradita, ma il modo in cui la comunichi deve essere autentico, deve trovare respiro nell’equilibrio che esiste tra ciò che sai e ciò che sei.
7) Il mestiere di scrivere: non in senso materialista, ma dell’anima, quale e quanto lavoro richiede?
José Saramago, premio Nobel alla Letteratura 1998, diceva: «Scrivere è un lavoro e come ogni altro lavoro deve essere fatto bene, bisogna farlo bene. Facciamo noi scrittori un lavoro, alcuni meglio di altri, e questa è la nostra missione».
Io mi trovo molto d’accordo con queste parole, soprattutto quando Saramago cita le parole “lavoro” e “fatica”. Il lavoro intellettuale, come quello dello scrivere, non sempre rende la percezione dell’impegno profuso e del bisogno che l’anima ha, ogni volta, di rinnovarsi, aprirsi a nuove letture, a nuove conoscenze.
L’anima dello scrittore è in continuo viaggio, in una costante esplorazione dei sentimenti umani. Tutto questo richiede impegno, ricerca, sacrificio. Ma la cosa più bella ed entusiasmante per chi scrive sta proprio lì, in quel misterioso passaggio obbligato che tutte le volte bisogna percorrere tra il punto di partenza(il foglio bianco) e la meta(l’opera compiuta).