di Mattia Albani
Palazzo Re, a Giulianova. Sembra una cripta medievale, all’interno puoi dirci la messa, dal muro si sporgono mattoncini vecchi di secoli, dall’alto volte che non ne possono proprio più. Fuori c’è un aria tiepida, è l’imbrunire, non una goccia di pioggia. L’estate di San Martino.
L’inverno della Medusa è lontano. Neanche un nome. Solo pentimento. Inizia alle cinque e mezzo. Neanche un nome di Walterina Rosati, riprodotto in monologo a due voci da Cristina Trifoni, e offerto come pièce colta, passionale e soprattutto: attuale.
Tutto nasce da una scultura realizzata da Maria Luisa Falanga. Il titolo della statua, molto evocativo, è Medusa pentita. Walterina Rosati ne ha fatto un monologo teatrale cogliendo al balzo un suggerimento lasciato cadere lì con nonchalance dalla cronaca quotidiana. È difficile spiegarne il perché, ma l’ha immaginato come un dialogo che dovesse svolgersi tra una donna stuprata e la proiezione mentale di una Gorgone disperata e comprensiva. Guardarlo è un qualcosa di solenne. Una scenografia ridotta ai minimi termini, come un altare votivo dei tempi antichi. L’ha fatto per la prima volta a Giulianova, sfruttando la suggestività antica di Palazzo Re.
Tutti lì seduti, su sgabelli che sono scranni reali, asserragliati composti, mentre sulla scena si alternano le voci di Cristina Trifoni/donna violata e Cristina Trifoni/Medusa pentita, a raccontare il dolore di quella donna stuprata e costretta a gettar via tra i rifiuti il figlio nato da quella violenza brutale. Dura una quarantina di minuti, poi ci si alza tutti in piedi e si battono le mani. Tutti sincronizzati, saremo un’ottantina, c’è anche l’assessore alla cultura Luciano Crescentini, così, giusto per la cronaca, tutti ad applaudire la ninna nanna singhiozzata in chiusura da Cristina Trifoni, con le gambe fiaccate, e l’occhio della Medusa pentita che sorveglia tutto da sopra un piedistallo. Alla fine si rimane un po’ interdetti, e sentirsi un tantino straniati è normale. Lo vedi negli occhi delle persone, nelle loro mandibole allentate. C’è dentro tutta la pietosa partecipazione tipica dei riti sacri. Solo che di sacro c’è solo il dolore, la riflessione, lo stupore. L’inatteso. Walterina Rosati ci catapulta tutti nell’assurda immanenza di una dimensione che sembra altra e invece è proprio la nostra dimensione, la nostra sfera, la nostra emotività. Che roba.
Non è un teatro comune, quello di Walterina, è teatro intimo, suggestivo. L’attrice si muove con una solennità e un dolore da Gorgone violata, in una realtà tradotta in drappi dorati e colonnine di cartongesso. E una sedia. Tutto illuminato da fari accesi come lampade per l’incubazione. Tra tanta suggestione ne restano soprattutto due: il volto di pietra messo sullo sfondo, a osservare la scena e la platea e la voce registrata e distorta di Cristina Trifoni che interpreta la Medusa.
Ha tutta l’impressione dell’irrealtà. Ma sa di quotidiano quello che Walterina Rosati mette in scena su quel palco che non è un palco vero e proprio, perché rimane lì, alla stessa altezza del pubblico e la scena è anche lì, a due passi dalla prima fila, se allunghi una mano puoi sfiorare la gonna di Cristina Trifoni che avanza verso di te. Teatro che penetra nella gente. Verità celata che risorge e viene a prenderti a schiaffi. Una bella botta, insomma. E alla fine tutto quel battere di mani sembra quasi un oltraggio, una blasfemia che interrompe il sacro succedersi delle voci.
“Neanche un nome”, grida la donna battendosi il petto. “Neanche un nome!”. Ma com’è che io sento – forse mi sbaglio – qualcuno che grida, sottovoce, – non qualcuno, ma tanti – un solo nome? Sillabe scandite come rintocchi di campana: Wal-te-ri-na, Wal-te-ri-na, Wal-te-ri-na…