TERAMO – In queste settimane nella Città è in svolgimento un dibattito molto ricco sul percorso che il Comune di Teramo ha da tempo intrapreso per arrivare all’approvazione in Consiglio comunale di un regolamento per la democrazia e la partecipazione popolare, in attuazione delle disposizioni di legge su tale materia. L’attuale fase del percorso è caratterizzata dal confronto su un’ipotesi di regolamento consistente nel sunto delle principali innovazioni che potrebbero essere contenute nel testo in fase di definizione da parte della prima Commissione Affari generali.
Si sono avuti più di un confronto con le realtà associative della Città su iniziativa del Comune, altri si svilupperanno in modo più o meno spontaneo. Dopo la fase del confronto, la Commissione definirà un testo da portare in Consiglio comunale. Il confronto è molto vivo e fa emergere interessantissimi spunti critici quasi tutti validi e opportuni, altri meno, altri decisamente inconsistenti. Ma andiamo per ordine.
Il D. lgs. 267/2000 (art. 6 comma 2), come è noto, stabilisce che ogni statuto comunale debba stabilire criteri generali in materia di partecipazione popolare, anche su base di quartiere o di frazione (art. 8 comma 1), con lo scopo di valorizzare le libere forme associative e promuovere organismi di partecipazione popolare. Questo ultimo articolo, peraltro, prescrive che in ogni statuto debbano essere previste «forme di consultazione della popolazione […]. Possono essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini». L’articolo 7 del D. lgs. 267/2000, infine, impone ai comuni l’adozione di regolamenti per l’organizzazione e il funzionamento degli organismi di partecipazione previsti nello Statuto. In attuazione delle predette disposizioni di legge, il Comune di Teramo ha modificato lo Statuto comunale ed è in procinto di adottare il regolamento per la partecipazione popolare secondo quanto stabilito dalla legge. Nel quadro normativo appena descritto, una prima riflessione è d’obbligo perché vengono spontanee almeno due domande: dal 1990 (anno di entrata in vigore della legge 142/1990 che rivive modificata nel D.lgs. n. 267/2000) ad oggi quanti comuni abruzzesi avevano applicato la legge in materia di partecipazione? Uno: Giulianova nel 2010. In realtà si trattava solo di applicare delle disposizioni di legge e bastava approvare un regolamento in Consiglio comunale, ma le classi politiche locali al governo delle città abruzzesi hanno preferito ignorare per decenni la partecipazione dei cittadini. Poi ancora: perché Teramo che ha sempre contato un gran numero di comitati di quartiere non lo aveva ancora fatto? In attesa di risposte, tutti devono riconoscere che ora finalmente lo si vorrebbe fare.
Veniamo al merito. Dal sunto riepilogativo che il Comune ha fatto circolare per aprire il dibattito in corso (La Commissione non ha ancora approvato un testo definitivo), si evincono alcune ipotesi innovative di forte rilievo. Si pensi allo strumento del Bilancio partecipativo. Su tale strumento esiste una norma fondamentale di principio nello Statuto comunale: nell’art. 86 dello stesso, infatti, il Bilancio Partecipativo è individuato come veicolo di partecipazione dei cittadini per lo sviluppo dell’intera politica municipale e come processo partecipato per l’utilizzo dei fondi di bilancio. In tale articolo, inoltre, si rimanda la disciplina di dettaglio al regolamento. L’ipotesi di regolamento di cui trattasi individua il bilancio partecipativo come strumento “propedeutico” e di “supporto” al bilancio di previsione; ne disciplina le finalità, il budget, il procedimento, il gruppo di lavoro, le fasi, l’informazione ecc..
Ci sarebbe molto da dire su alcuni aspetti particolari più o meno condivisibili sui quali mi riservo di tornare, ma anche qui una considerazione e una domanda sono d’obbligo. La considerazione: a Teramo le norme prevedono l’obbligo del bilancio partecipativo. Mi spiego meglio. A Teramo, approvare il bilancio senza questo procedimento “propedeutico” e di “supporto” non sarà più possibile senza incorrere nell’illegittimità del procedimento approvativo. Insomma, a Teramo se non si fa il bilancio partecipativo il conseguente atto sarà annullabile: potrà essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo per vederne pronunciato l’annullamento per violazione di legge. La domanda: in quale altro comune d’Abruzzo il bilancio preventivo del Comune è il frutto del dibattito pubblico con i cittadini? In nessuno! Solo a Teramo il Comune vorrebbe vincolarsi alla partecipazione popolare per l’approvazione del bilancio e tale volontà è tradotta in norme giuridiche. Sembra poco? Nulla? Peccato: in realtà si tratta di un punto di grande discontinuità, basta leggere le norme.
Potrei andare avanti con le innovazioni e mi limito solo a citarne alcune altre: Il patto con i cittadini per la cura e la rigenerazione degli spazi e dei beni comuni, l’albo unico delle associazioni, le consulte comunali, ma vorrei riferire su una delle critiche più ingiuste e incomprensibili: quella relativa all’ipotesi di zonizzazione degli organismi di partecipazione su base di quartiere e di frazione. In detta ipotesi si prevedono 6 quartieri e 5 frazioni suddivisi per sezioni elettorali. È noto che a Teramo esistono diverse decine di comitati aventi svariate tipologie; alcuni sono eletti a suffragio universale, altri sono delle associazioni denominate comitati di quartiere, altri ancora sono solo delle sacche di voti di cui si servono alla bisogna i partiti politici nelle varie fasi elettorali. La zonizzazione proposta nell’ipotesi di regolamento è stata definita da alcuni “illegittima”, “incostituzionale” e antidemocratica poiché vorrebbe “imporre” alle spontanee realtà associative un modello precostituito. Per quanti sforzi abbia fatto per trovare fondamento a tali affermazioni, da esse devo dissentire fortemente. Il Comune di Teramo ha applicato le disposizioni di legge e di Statuto sui temi della partecipazione (l’ho detto) come non era mai stato fatto. Si possono non condividere le forme scelte, io per esempio, alcune non le condivido, ma esse sono attuative del dettato legislativo e di quale illegittimità si parla dunque? Ancor più grave e persino risibile appare l’accusa di incostituzionalità del regolamento comunale: i regolamenti devono essere conformi alla legge e sulla loro presunta illegittimità decide il giudice amministrativo. Di grazia, chi decide l’incostituzionalità di un regolamento? Certo non può essere la Corte costituzionale che giudica sulla costituzionalità delle fonti primarie, e chi ha letto qualcosa sa bene che un regolamento è una fonte secondaria. Dunque? Decidiamo noi se un regolamento è incostituzionale? In realtà si invoca fuori luogo l’art. 18 della Costituzione che garantisce a tutti i cittadini la più ampia libertà di associazione. Bene, proprio in virtù dell’art. 18 Cost, anche se il regolamento comunale propone una diversa forma organizzativa, ogni gruppo di cittadini può decidere autonomamente come organizzarsi. Né il comune stesso potrebbe imporre in alcun modo la forma organizzativa definita per regolamento, integro restando per legge in capo al Comune l’obbligo di valorizzare ogni forma organizzativa popolare. Infatti, l’ipotesi di regolamento contiene, a tal proposito, l’albo delle libere forme associative.
Tanto più che l’ipotesi di regolamento (questo non lo dice nessuno) prevede la possibilità di modifica a maggioranza qualificata “previo parere obbligatorio ma non vincolante dell’organo assembleare dei quartieri interessati”. Infine, tale modifica può essere richiesta anche dai Comitati di quartiere interessati, con proposta ratificata dall’Assemblea del quartiere. Come si vede, si privilegia il ruolo delle assemblee di cittadini (forse qualcuno vorrebbe fare tutto in casa, nel chiuso di ristretti comitati di affari). Ma a me pare, invece, che siamo finalmente di fronte a delle autentiche svolte di democrazia. Forse vanno strette a chi ancora vede la politica come esclusivo appannaggio dei partiti ma può darsi che mi sbagli (non sarebbe la prima volta), eppure al momento credo che solo tre anni fa questi livelli di democrazia a Teramo, oltre che inesistenti, erano assolutamente improponibili.
Carlo Di Marco